In un giorno di vacanza al mare con i figli decido di fare una passeggiata intorno casa. Cerco un diversivo dalla spiaggia con le more da raccogliere, i pinoli da schiacciare e il panorama marino di contorno.
Poco dopo vedo da lontano venirmi incontro una persona che conosco da molto tempo e che da altrettanto molto tempo non frequento.
Lo riconosco e mi presento:
-“Ciao, sono Caterina, mi riconosci è un po’ di tempo che non ci vediamo.”
L’uomo non dice nulla, ma apre le braccia in segno di accoglienza e sorridendo mi viene incontro.
Mi abbraccia, sorride ai miei figli ed io emozionata dal rivederlo inizio a parlare:
– “Sono uscita per una giratina, ma queste due pesti non fanno altro che litigare.”
I miei figli mi guardano in modo interlocutorio e furbino ma sorridono all’uomo che gli sorride e li guarda amorevolmente.
Quindi continuo:
-“come stai? Come sta tua moglie?”
E lui inizia una verbalizzazione insolita:
-“ehhhhh…..ehhhhh….ehhh…”
Insieme gesticola un qualcosa che sembra voglia dire “Insomma, così, così”
A quel punto non capisco se cerca di essere semplicemente buffo o se invece c’è qualcosa di strano e quindi affermo:
– “Ma se la cava?”
– “Ehhhh mmmm” in senso affermativo.
Poi mi prende per le spalle, mi gira di fronte a sé e sempre gesticolando mi dice di aspettare. Attendo qualche secondo in cui non capisco se ridere o spaventarmi perché comprendo che mi sta per dire qualcosa d’importante che richiama tutta la mia attenzione. Dentro la mia testa penso: “Ora mi dice che sta per diventare nonno, speriamo sia una notizia bella!”
Con tutto lo sforzo e la concentrazione che può recuperare il mio amico apre la bocca e mi dice:
– “Alzheimer!”
– “Noooo, Ma chi?” Chiedo allarmata.
– “Io!!!” Mi risponde.
A quel punto comprendo che la malattia gli ha rubato tutte le parole.
Il mio shock è evidente dal mio silenzio. Mi rendo conto e riesco a commentare attraverso un:
– “Mi dispiace tanto, mi dispiace”
L’uomo sente la mia emozione, osserva in modo attento il mio sguardo e nel dramma si commuove e mi saluta.
Rimango in silenzio per molto tempo perché i miei pensieri fanno troppo rumore.
Immagino il dolore della famiglia, immagino il dolore del mio amico.
Una malattia degenerativa vuol dire che non c’è cura, vuol dire che non si può tornare indietro, si può solo cercare di rallentarne il decorso nella speranza che non sia troppo aggressivo.
La fine è una perdita completa della persona nonostante la presenza fisica.
Un lutto lento, un lutto a puntate, soprattutto per i familiari. Un lutto da elaborare ad ogni pezzo della persona che se ne va: oggi è la parola, domani non si sa.
Immagino la consapevolezza del mio amico nell’impotenza della verbalizzazione. Immagino quello che vorrebbe dire ai suoi familiari prima che arrivi l’oblio. Immagino l’importanza del non verbale, del gesto, dello sguardo, dello sfiorarsi, del toccarsi.
Una carezza può aprire allo struggimento emotivo del dramma e parlare più della semplice parola.
Immagino un mondo immerso nell’amore disperato dato dalla consapevolezza dell’addio.
Per l’Alzheimer, le funzionalità se ne vanno un poco alla volta e accade che possano esserci comunque momenti di lucidità o di competenze. Piccole finestre su un reale che lentamente si sgretola e allora i familiari devono stare attenti a ciò che dicono, perché il malato è una presenza fantasma: appare quando nessuno se lo aspetta, ma i sentimenti e le emozioni sono reali. E sono reali anche quando ciò che vedono o credono non lo è. L’angoscia, la paura, la disperazione sono le stesse che può provare un uomo sano.
La domanda che affligge la mia mente e non mi lascia tregua è “ma come si fa? Come si può resistere a tanto dolore?”
Poi finalmente ho capito. Solo l’amore può aiutare, solo l’amore può far tenere, può reggere. Un amore folle, in cui dentro ci metto tutto: disperazione, gioia, rabbia, gelosia, impotenza. L’amore è tutto questo. Aggrapparsi ad un passato che non ritorna, ma che può diventare presente solo nella nostra mente. L’instabilità del presente non aiuta, vacilla, soffoca e spesso genera assenza di speranza se si pensa al futuro.
La malattia degenerativa è un addio lento, una ferocia devastante per tutti i coinvolti a cui non è permesso di comprendere, ma solo di accettare. E per accettare, l’amore, è il primo fondamentale ingrediente. L’amore per l’altro, l’amore per se stessi dove si cela il perdono. Il perdonarsi anche là dove non ci si fa più a prendersi cura di qualcuno, il perdonarsi dove si prova rabbia per il malato. Il perdonarsi quando nasce l’ambivalenza. Il perdonarsi quando non si riesce a dire addio.
Il perdonare una vita che se ne va e una che si sarebbe sperato andare diversamente.
Dott.ssa Caterina Borghini, Terapeuta familiare